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Intervista a Jorge Santiago

Chicchi dell'altro mondo - Il mercato equo contro il baratro

«Nell'indigenza Dio muore». Jorge Santiago teologo della liberazione ispirato dal vescovo Samuel Ruiz ricorda l'esperienza del Desmi, l'associazione per lo sviluppo economico e sociale dei messicani indigeni nata nel 1969 in Chiapas. Avanguardia di un modello di emancipazione solidale dei popoli del sud del mondo ancor più valido e necessario oggi davanti alla crisi alimentare globale. - Geraldina Colotti (Il Manifesto)

L'aroma che si sprigiona dal pacchetto giallo oro indica che il caffè Excelente - che l'associazione Tatawelo importa direttamente dal Chiapas -, fa onore al nome. Farebbe senz'altro scomparire le cialde del distributore automatico che abbiamo a via Bargoni. «Tatawelo - spiega Jorge Santiago al manifesto - nell'idioma degli indigeni tzeltat significa nonno, avo, antico, ed è il nome del caffè prodotto dagli indigeni di etnia tzotzi-tzeltat della cooperativa Ssit Lequil Lum, che vuol dire Il frutto della terra». Jorge Santiago, classe 1943, economista e teologo della liberazione, è tra i fondatori del Desmi (Desarrollo economico e sociale de los mexicanos indigenas), l'Associazione per lo sviluppo economico e sociale dei messicani indigeni: partner dell'associazione Tatawelo nei progetti di economia solidale, che è venuto a promuovere in Italia. «Il Desmi - spiega il teologo - è nato in Chiapas nel 1969 dall'incontro di varie organizzazioni contadine e movimenti con l'apporto determinante della chiesa di base. L'obbiettivo era quello di condividere e accompagnare il processo di emancipazione dei popoli indigeni, aiutandoli a individuare e a combattere le cause strutturali della loro povertà». Il Desmi ha sede a San Cristobal, nel più importante dei 118 municipi di cui si compone il poverissimo stato messicano del Chiapas, grande un quinto dell'Italia. Da lì, nel 1994, partì la rivolta di alcuni gruppi di campesinos indigeni, prevalentemente di origine maya, contro le devastanti politiche neoliberiste del Nafta, il trattato di libero commercio, firmato fra Messico e Stati uniti. In quell'occasione fece la sua comparsa l'Esercito di liberazione zapatista (Ezln) che ispirandosi a Emiliano Zapata e alle conquiste della rivoluzione messicana d'inizio '900, rivendicava la terra per tutti i contadini, l'autonomia per gli indigeni, e la democratizzazione dello stato.

Jorge Santiago, stretto collaboratore del «vescovo zapatista» Samuel Ruiz, in quanto presidente della Commissione di riconciliazione e membro del Centro per i diritti umani Bartolomeo de Las Casas, ha avuto il ruolo di mediatore nel corso delle ripetute trattative avviate con il governo messicano, tutte disattese. «La chiesa chiapaneca - racconta ora Santiago - ha una lunga tradizione di lotta per i diritti umani, che l'ha portata a contrapporsi a un'altra chiesa, legata ai grandi latifondisti e al potere messicano. E' stata la chiesa del vescovo Bartolomeo de las Casas. Quella che io ho conosciuto quando sono tornato nel mio paese dopo aver concluso a Roma gli studi di teologia, era quella di Samuel Ruiz».
Lo sfondo è quello del Concilio Vaticano II, della teologia della liberazione che nel Sudamerica incontra le lotte sociali e a volte imbraccia il fucile, della seconda conferenza dell'episcopato latinoamericano del '67, in Colombia, a Medellin: «Fondamentale - ricorda ora Santiago - fu una conferenza dei vescovi alle Barbados, in cui un gruppo di antropologi mise in primo piano i valori dei popoli indigeni, il loro diritto all'emancipazione da 500 anni di dominazione coloniale. Per Samuel - ricorda ancora il teologo - il problema principale degli indigeni era che non avevano né fede, né scarpe, e che non avevano fede perché nelle condizioni di indigenza in cui vivevano, per loro la parola di Dio era morta». Obiettivo del Desmi, è invece quello di «ricondurre i problemi dei singoli alle cause strutturali che le determinano, alla lunga dominazione coloniale, alle responsabilità dei proprietari terrieri, dei padroni del commercio e di uno stato per cui i diritti degli indigeni erano carta straccia». Insieme ai contadini indigeni, il Desmi «organizza le lotte per il diritto alla terra, all'educazione, alla salute», contribuisce all'organizzazione del Primo congresso indigeno, nel 1974: «In quella sede - ricorda l'economista - i delegati delle comunità di 4 diverse etnie stabilirono alcuni importanti punti di partenza: diritto alla terra, alla salute, all'educazione e al commercio solidale».
La strada del commercio equo è quella tracciata nel 1964 dalla prima conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo, che aveva lanciato l'idea del «Trade not aid», «il commercio, non l'aiuto». Un'idea che, come ha scritto il prete operaio Frans van der Hoff, cofondatore nell'88 del Marchio Max Havelaar, ora leader mondiale del commercio equo, è stata fin da subito fortemente caratterizzata dall'umanesimo dei movimenti religiosi cristiani e - per l'Europa - anche da una concezione protestante dell'etica. Un'idea che, nata sotto il segno della solidarietà tra consumatori del nord e piccoli produttori del sud, ha incontrato i limiti del suo intreccio al mercato varcando la soglia della grande distribuzione, dove la ricerca di fornitori socialmente meno connotati, elimina il vantaggio iniziale per i piccoli contadini.
A questo riguardo, l'economista chiapaneco si richiama alle parole del vescovo Samuel Ruiz: «Finché esiste il mercato capitalista, imboccare la via del commercio alternativo significa camminare sull'orlo di un precipizio, basta un passo e sei nel baratro del sistema, mi diceva Samuel. La crisi alimentare che è esplosa nel mondo - continua Santiago - mostra a cosa ha portato aver finalizzato la produzione del sud del mondo all'esportazione di materie grezze nel primo mondo. Nei nostri progetti puntiamo invece a diversificare la produzione: nelle piantagioni non c'è solo caffé, ma anche i legumi che servono all'alimentazione di base». Obbiettivo fondamentale dei progetti - spiega ancora Santiago - è l'autonomia dei piccoli produttori: «perciò cerchiamo di sostenerli perché realizzino in loco il pacchetto di caffé, perché per questioni legate alle barriere doganali del primo mondo, il caffé viene esportato solo in chicchi verdi e nei villaggi mancano soldi e macchinari per tostare, macinare e impacchettare. Tanto che si arriva all'assurdo che, nei luoghi di produzione, si consuma nescafé».
Nel «baratro», come ha spiegato l'economista Christian Jacquiau su Le Monde diplomatique/ilmanifesto, c'è il mercato delle strutture di revisione e degli intermediari della certificazione del commercio equo, che puntellano le multinazionali dell'agroalimentare, della torrefazione e della distribuzione: loro non si rovinano certo pagando un po' più cara una piccolissima quantità di materie prime ritenute eque, che poi faranno pagare ai consumatori in cerca di equità. E nel campo delle certificazioni, come in quello della distribuzione e del marketing, abusi ed eccessi del commercio equo, sono numerosi: «Per questo - dice Santiago - noi controlliamo personalmente tutta la filiera dello scambio. Per discutere di questi problemi, ogni anno il Desmi organizza tre giorni di incontri sul tema dell'economia solidale in cui diverse esperienze di lavoro collettivo provenienti da ogni parte dell'America latina vengono in Chiapas per confrontarsi. Nei grandi convegni si parla di sovranità alimentare, noi cerchiamo in concreto di realizzarla».
Nel «baratro», per l'economista, ci sono i «progetti-trappola del governo messicano, che mirano a dividere le comunità indigene, strozzandole con crediti a cui non possono far fronte. Felipe Calderon - afferma Santiago - riconosce che c'è una crisi alimentare a livello mondiale, ma la soluzione che propone è quella di aprire le frontiere per far entrare il mais dagli Stati uniti e distruggere l'agricoltura messicana. Oppure in Chiapas eroga crediti per comprare fertilizzanti, ben sapendo che i fertilizzanti distruggono il terreno e inquinano. Lo stato usa la crisi alimentare per imporre un po' di più il proprio modello di sviluppo e rafforzare le multinazionali della chimica o del transgenico».
Ma bastano esperienze alternative e su piccola scala a preservare da un baratro ancora più grande, senza un governo mondiale che applichi su scala planetaria i principi della «decrescita»? Risponde Santiago: « I problemi di un altro modello di sviluppo implicano una trasformazione radicale a livello strutturale e politico. Ma la forza delle comunità zapatiste e dei movimenti indigeni e contadini di questi ultimi anni è stata quella di costruire alternativa pur restando ancora dentro il sistema capitalista, di non perdersi pur cercando di sperimentare il percorso di un'altra economia».
Un punto di forza, per Santiago, è «la chiarezza di produrre un percorso, non un semplice prodotto». È importante che i contadini poveri abbiano un reddito per coprire i bisogni fondamentali, ma anche che realizzino «relazioni umane basate su valori diversi», che preservino l'ecosistema. E per Santiago, le comunità zapatiste funzionano così: in una logica di mutuo sostentamento e non di mero scambio economico. Da loro, «dialogare con una singola persona, significa dialogare con l'intera struttura, con l'intero percorso di liberazione».

L'intervista è tratta da "Il Manifesto"


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ultimo aggiornamento: 8-Dic-2010